Dalle chitarre alle bottiglie, dalle orecchie al palato. A quasi settanta anni dalla sua fondazione la Fender Musical Instruments Corporation espande il proprio orizzonte e, per la prima volta, si affaccia su un mercato che nulla ha a che vedere con quello di propria competenza e che da sempre lo contraddistingue. Dalla musica all’enologia il passo sembrerebbe essere breve. Già, perché lo storico marchio fondato nel 1946 ha da poco stipulato un accordo con la Armida Winery di Sonoma County, California, per lanciare una linea di vini decisamente rock. A breve sarà dunque possibile trovare il marchio Fender impresso non soltanto su chitarre, bassi e amplificatori ma anche sulle etichette delle bottiglie di vino.
La collaborazione con la Armida Winery è stata presentata dall’azienda costruttrice di strumenti musicali come «un’altra estensione del brand volta al lifestyle che permetta a musicisti e amatori di sperimentare la passione e la qualità che caratterizzano il marchio» e ha portato alla produzione di una gamma di vini composta da quattro tipologie: Strat Cabernet Sauvignon, Telecaster Thinline Pinot Nero, Jazzmaster Chardonnay e Telecaster Zinfandel. Ai più attenti non sarà sfuggito che i vini, disponibili al prezzo di 25$ a bottiglia fatta eccezione per il Telecaster Zinfandel (pensato e realizzato per veri intenditori che verrà messo in vendita a 500$), riprendono i nomi delle chitarre più famose prodotte dalla Fender.
Così come per ogni altro prodotto marchiato Fender, l’azienda californiana assicura che anche per la produzione dei vini verrà ricercata la massima accuratezza, evitando così che non venga trascurato il minimo dettaglio in favore della qualità. Il connubio tra musica e vino non è mai stato tanto perfetto. Salute!
28 agosto 1963. Anche cinquant’anni fa era di mercoledì e quel giorno 250mila persone si radunarono al Lincoln Memorial di Washington per partecipare alla marcia per il lavoro e la libertà (For Jobs and Freedom). Una grande manifestazione politica a sostegno dei diritti civili ed economici per gli afroamericani, organizzata da Philip A. Randolph, sindacalista militante, e dal pacifista Bayard Rusting, omosessuale dichiarato con un passato da comunista. Sul palco intervennero sindacalisti, leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti e attivisti. Tra questi anche il pastore protestante Martin Luther King, capo del Southern Christian Leadership Conference, che prese la parola per pronunciare uno dei discorsi divenuti simbolo della storia americana e, più in generale, di tutta l’umanità. Un discorso memorabile preparato in ogni minimo dettaglio per ricordare a tutta la nazione che, cento anni dopo l’Editto di emancipazione degli schiavi firmato dal presidente Abraham Lincoln, i neri d’America erano ancora considerati cittadini di serie b.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
Davanti ad una folla incantata Martin Luther King continua a leggere ma poi decide di andare a braccio per esprimere i concetti chiave. Chissà quante volte ha preparato quel discorso, o forse non ha semplicemente bisogno di riguardare quelle parole scritte di getto a tutela della sua comunità, la comunità afroamericana. Fino al passaggio cruciale e a quell’«I have a dream», pronunciato una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, come un mantra di speranza.
Ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza.
Quel sogno che cambiò il corso della storia è ancora vivo? Forse sì e la testimonianza arriva dalle migliaia di persone che in questi giorni si sono riunite a Washington, proprio al National Mall, per commemorare quella data e quelle parole, tanto forti quanto purtroppo ancora attuali, anche a cinquant’anni di distanza. «Non è il momento delle commemorazioni nostalgiche. E non è il momento delle autocelebrazioni – ha commentato il figlio maggiore di King, Martin Luther King III -. Il lavoro non è finito. Il viaggio non è completato. Possiamo e dobbiamo fare di più».
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