Costi elevati e scarso rendimento, il sindaco di Chicago chiude 54 scuole

Rahm EmanuelA nulla è servito l’appello del piccolo Asean Jonhson, lo studente divenuto simbolo della protesta contro la decisione del sindaco di Chicago di chiudere 54 scuole pubbliche tra cui anche la sua. Nemmeno le parole del bambino hanno scalfito minimamente la fermezza di Rahm Emanuel, primo cittadino della metropoli americana, che non ha guardato in faccia nessuno perseguendo la propria strada. Controcorrente, verrebbe da dire, perché la decisione ha scatenato polemiche a non finire coinvolgendo diverse categorie: in primo luogo gli studenti ma di riflesso anche insegnanti e genitori.

Classe 1959 ed ex capo di gabinetto di Barack Obama alla Casa Bianca, Rahm Emanuel ha ponderato la propria scelta per via di scarsi risultati educativi e a fronte di costi ritenuti elevati dall’amministrazione comunale che ha di fatto definito «fallite» le scuole destinate alla chiusura. Il deficit annuale del sistema scolastico è infatti pari a 1 miliardo di dollari, utilizzati per il mantenimento di edifici per lo più mezzi vuoti. La decisione del primo cittadino ha innescato la rabbia del sindacato degli insegnanti che attraverso il presidente Karen Lewis ha parlato di «un momento luttuoso per tutti i bambini della nostra città». Le scuole con meno alunni e scarsi rendimenti verranno dunque chiuse e gli studenti trasferiti in altri istituti in grado di offrire una migliore istruzione.

Una posizione tanto netta e irremovibile potrebbe inoltre costare cara al sindaco in vista delle elezioni in programma nel 2015.  La sua rielezione potrebbe essere tutt’altro che scontata ma Rahm Emanuel preferisce soffermarsi solo sul presente, difendendo a spada tratta la propria decisione. «Subirò qualsiasi conseguenza politica se ciò serve a dare un futuro migliore ai nostri figli – ha fatto sapere il sindaco -: chiudere queste scuole fatiscenti era politicamente rischioso ma necessario per l’educazione dei ragazzi».

Una scelta opinabile ma sicuramente coraggiosa, quella di Rahm Emanuel, che in pochi avrebbero saputo prendere. E chissà se anche in Italia qualche suo collega sarà in grado di seguirne le orme, garantendo un notevole risparmio alle casse dei Comuni e – perché no – destinando quei soldi per investire nell’istruzione.

Gabriele Rossetti

Blowin’ In The Wind, la canzone simbolo di Bob Dylan compie 50 anni

Bob Dylan«How many roads must a man walk down before you call him a man?» Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo? Si apre con questa frase Blowin’ In The Wind, canzone simbolo della carriera di Bob Dylan divenuta un manifesto per la generazione dei giovani cresciuti negli Anni ’50 e ’60 che lottavano per la difesa dei diritti civili. Una canzone scritta di getto – lo stesso cantautore di Duluth ha più volte dichiarato di averla buttata giù in dieci minuti – che oggi spegne 50 candeline. Era il 27 maggio 1963 e l’allora 22enne artista dava alle stampe The Freewheelin’ Bob Dylan, secondo album ufficiale che si apriva proprio con queste note.

Costruita su tre semplici strofe, Blowin’ In The Wind divenne presto un inno e una pietra miliare della cultura musicale di tutti i tempi. Nonostante le tematiche sociali, pacifiste ed esistenziali affrontate nel brano, il menestrello del Minnesota si affrettò a ribadire che «non è una canzone di protesta». Eppure è particolarmente legata proprio ad una protesta di massa, quando venne eseguita dal vivo durante una manifestazione di piazza a Washington davanti a Martin Luther King e ad una marea di persone.

La canzone è stata suonata miliardi di volte in tutto il mondo e reinterpretata dai migliori artisti tra cui Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Sam Cooke, Neil Young, Marlene Dietrich, Duke Ellington. Un’infinità di cover nei generi più disparati che però non hanno mai snaturato il significato delle parole, semplici e dirette allo stesso tempo, ma in fondo delicate come un soffio di vento.

Gabriele Rossetti