World Radio Day, giovedì 13 febbraio la giornata indetta dall’UNESCO

world radio dayGiovedì 13 febbraio si celebra il World Radio Day, la giornata indetta dall’UNESCO per sottolineare l’importanza dell’emittente radiofonica come strumento per migliorare la cooperazione internazionale e per incoraggiare le emittenti affinché promuovano la libertà di accesso all’informazione, la libertà di espressione e il rispetto per le diverse culture.

L’iniziativa, nata in seguito ad una richiesta da parte dell’Accademia Spagnola della Radio, è stata ufficialmente approvata il 3 novembre 2011 dalla 36esima Conferenza Generale dell’UNESCO ed è basata sul principio fondamentale di aumentare la consapevolezza nei confronti del ruolo fondamentale ricoperto dalla radio all’interno del tessuto sociale odierno o, per dirla con Marshall McLuhan, del villaggio globale. La radio è infatti riconosciuta come un mezzo di comunicazione a basso costo, adatto per raggiungere chiunque in ogni angolo del Mondo e offrire un sano dibattito pubblico, a prescindere dal livello di istruzione delle persone coinvolte. Tuttavia, si legge sul sito ufficiale dell’evento, ad oggi circa un miliardo di persone non ha accesso alla radio.

La radio tocca intimamente, personalmente, quasi tutti in quanto presenta un mondo di comunicazioni sottintese tra l’insieme scrittore-speaker e l’ascoltatore. Il suo aspetto è proprio questo: è un’esperienza privata. Le sue profondità subliminali sono cariche degli echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi. Ciò è insito nella natura stessa del medium, per il suo potere di trasformare la psiche e la società in un’unica stanza degli echi. [Marshall McLuhan]

Il focus della terza edizione del World Radio Day sarà incentrato sulle donne nella radio; verranno celebrate le figure femminili che hanno contribuito a far nascere, arricchire e sviluppare un mezzo di comunicazione di massa in continua evoluzione. La giornata mondiale della radio promossa dall’ente delle Nazioni Unite ricorre ogni 13 febbraio, giorno dell’anniversario della fondazione della radio dell’ONU, datata 1946.

Gabriele Rossetti

Costi elevati e scarso rendimento, il sindaco di Chicago chiude 54 scuole

Rahm EmanuelA nulla è servito l’appello del piccolo Asean Jonhson, lo studente divenuto simbolo della protesta contro la decisione del sindaco di Chicago di chiudere 54 scuole pubbliche tra cui anche la sua. Nemmeno le parole del bambino hanno scalfito minimamente la fermezza di Rahm Emanuel, primo cittadino della metropoli americana, che non ha guardato in faccia nessuno perseguendo la propria strada. Controcorrente, verrebbe da dire, perché la decisione ha scatenato polemiche a non finire coinvolgendo diverse categorie: in primo luogo gli studenti ma di riflesso anche insegnanti e genitori.

Classe 1959 ed ex capo di gabinetto di Barack Obama alla Casa Bianca, Rahm Emanuel ha ponderato la propria scelta per via di scarsi risultati educativi e a fronte di costi ritenuti elevati dall’amministrazione comunale che ha di fatto definito «fallite» le scuole destinate alla chiusura. Il deficit annuale del sistema scolastico è infatti pari a 1 miliardo di dollari, utilizzati per il mantenimento di edifici per lo più mezzi vuoti. La decisione del primo cittadino ha innescato la rabbia del sindacato degli insegnanti che attraverso il presidente Karen Lewis ha parlato di «un momento luttuoso per tutti i bambini della nostra città». Le scuole con meno alunni e scarsi rendimenti verranno dunque chiuse e gli studenti trasferiti in altri istituti in grado di offrire una migliore istruzione.

Una posizione tanto netta e irremovibile potrebbe inoltre costare cara al sindaco in vista delle elezioni in programma nel 2015.  La sua rielezione potrebbe essere tutt’altro che scontata ma Rahm Emanuel preferisce soffermarsi solo sul presente, difendendo a spada tratta la propria decisione. «Subirò qualsiasi conseguenza politica se ciò serve a dare un futuro migliore ai nostri figli – ha fatto sapere il sindaco -: chiudere queste scuole fatiscenti era politicamente rischioso ma necessario per l’educazione dei ragazzi».

Una scelta opinabile ma sicuramente coraggiosa, quella di Rahm Emanuel, che in pochi avrebbero saputo prendere. E chissà se anche in Italia qualche suo collega sarà in grado di seguirne le orme, garantendo un notevole risparmio alle casse dei Comuni e – perché no – destinando quei soldi per investire nell’istruzione.

Gabriele Rossetti

Italia ultima nella classifica europea per le spese destinate alla cultura

colosseoMentre l’Italia affonda letteralmente a causa della inefficienza di una classe politica non soltanto incapace di formare un governo ma anche di eleggere un Presidente della Repubblica, dall’Europa giungono dati statistici che fanno rabbrividire. Secondo uno studio pubblicato da Eurostat l’Italia figura infatti all’ultimo posto nella classifica degli Stati appartenenti all’Unione europea per le spese destinate alla cultura. Ebbene sì, il Paese con il più alto numero di beni artistici del mondo [fonte Unesco] spende appena l’1,1% del suo Prodotto interno lordo – ampiamente al di sotto della media europea, ferma al 2,2% – per il sostentamento del proprio patrimonio culturale. Meno di Estonia e Lettonia (rispettivamente al secondo e terzo posto della classifica) che con tutto il rispetto possono solamente immaginare cosa voglia dire possedere una così alta concentrazione di monumenti, capolavori e beni presenti in un singolo territorio.

Una tragedia ampiamente annunciata che dimostra come l’Italia non sappia sfruttare le risorse a propria disposizione. Chiunque al nostro posto riuscirebbe a trarre giovamento da un simile patrimonio artistico e culturale, rendendolo un volano per lo sviluppo turistico ed economico. Sembra invece che la Pubblica Amministrazione consideri i beni culturali quasi come un “intralcio”, nonostante l’indotto frutti ogni anno circa il 5% della ricchezza totale del Paese dando lavoro a più di 1,5 milioni di persone. Un paradosso tutto italiano al quale nessuno saprà mai dare una spiegazione. Giusto per capirne la gravità basti pensare che – come emerso dalle stime diffuse dal Sipri e dal Fondo monetario internazionale – l’Italia preferisce spendere di più (1,7%) per le armi.

spesa pubblicaIl rapporto dell’istituto europeo di statistica non si esaurisce, però, con le spese dei 27 Stati dell’Ue destinate alla cultura ma analizza anche gli investimenti effettuati da ogni singolo Paese per l’istruzione, ovvero per il futuro. Un disastro anche lì, dove con l’8,5% del proprio Pil – a fronte di una media europea del 10,9% – l’Italia si posiziona al penultimo posto della classifica, appena un gradino sopra la sempre più disastrata Grecia. Dando un’occhiata ad entrambe le classifiche c’è però un altro dato che desta perplessità e riguarda la situazione della Germania. Seppur ampiamente sopra di noi in quanto a investimenti, la quarta potenza economica mondiale, tanto decantata come modello da seguire per uscire dalla crisi economica, figura anch’essa nelle ultime posizioni a livello europeo, dando l’impressione di essere poco incline alla destinazione di denaro pubblico per cultura e scuola.

dati diffusi da Eurostat fanno riferimento al 2011 ma viene difficile ipotizzare che negli ultimi due anni l’Italia abbia saputo invertire il trend. L’unica consolazione è che peggio di così non si possa certo fare. O forse sì?

Gabriele Rossetti