È rimasto intrappolato tra le lamiere di una Porsche 996 dopo uno schianto terribile che ha reso vano ogni tentativo di soccorso. Il pilota britannico Sean Edwards ha perso la vita a soli 26 anni, morto carbonizzato in seguito ad un incidente d’auto sul circuito australiano Queensland Raceway a Willowbank, nei pressi di Brisbane. Leader del campionato Porsche Supercup, Edwards è deceduto durante un corso di formazione mentre faceva da istruttore ad un ragazzo di 20 anni (gravissime le sue condizioni) che ha perso il controllo dell’auto andando a sbattere contro un muro di pneumatici.
Un destino beffardo quello che ha colpito il talentuoso automobilista inglese, figlio dell’ex pilota di Formula 1 Guy Edwards. Un destino fatto di intrecci pericolosi e cupe coincidenze dal momento che il padre fu uno dei primi a soccorrere Niki Lauda il primo agosto 1976, quando si gettò nel fuoco per estrarre il collega dalla Ferrari in fiamme dopo l’incidente avvenuto al Nürburgring in Germania. Seppur riportando gravi ustioni, quel giorno Niki Lauda se la cavò grazie anche al coraggio di Guy Edwards.
Un episodio che ha segnato la storia dei motori e più in generale di tutto lo sport, recentemente raccontato in maniera egregia dal regista Ron Howard nel film Rush. La pellicola – attualmente nelle sale – è basata sulla rivalità tra Niki Lauda e James Hunt e la narrazione non poteva prescindere da quell’incidente, la cui scena riprodotta al cinema vede tra i protagonisti proprio Sean Edwards nei panni di suo padre (oggi 70enne).
La finzione ha però presto lasciato il posto ad una realtà ben diversa per Sean, talento puro dell’automobilismo, nel cui palmares sono presenti la vittoria di un campionato europeo GT3 nel 2006 e, quest’anno, della 24 Ore di Dubai e della 24 Ore del Nürburgring.
28 agosto 1963. Anche cinquant’anni fa era di mercoledì e quel giorno 250mila persone si radunarono al Lincoln Memorial di Washington per partecipare alla marcia per il lavoro e la libertà (For Jobs and Freedom). Una grande manifestazione politica a sostegno dei diritti civili ed economici per gli afroamericani, organizzata da Philip A. Randolph, sindacalista militante, e dal pacifista Bayard Rusting, omosessuale dichiarato con un passato da comunista. Sul palco intervennero sindacalisti, leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti e attivisti. Tra questi anche il pastore protestante Martin Luther King, capo del Southern Christian Leadership Conference, che prese la parola per pronunciare uno dei discorsi divenuti simbolo della storia americana e, più in generale, di tutta l’umanità. Un discorso memorabile preparato in ogni minimo dettaglio per ricordare a tutta la nazione che, cento anni dopo l’Editto di emancipazione degli schiavi firmato dal presidente Abraham Lincoln, i neri d’America erano ancora considerati cittadini di serie b.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
Davanti ad una folla incantata Martin Luther King continua a leggere ma poi decide di andare a braccio per esprimere i concetti chiave. Chissà quante volte ha preparato quel discorso, o forse non ha semplicemente bisogno di riguardare quelle parole scritte di getto a tutela della sua comunità, la comunità afroamericana. Fino al passaggio cruciale e a quell’«I have a dream», pronunciato una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, come un mantra di speranza.
Ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza.
Quel sogno che cambiò il corso della storia è ancora vivo? Forse sì e la testimonianza arriva dalle migliaia di persone che in questi giorni si sono riunite a Washington, proprio al National Mall, per commemorare quella data e quelle parole, tanto forti quanto purtroppo ancora attuali, anche a cinquant’anni di distanza. «Non è il momento delle commemorazioni nostalgiche. E non è il momento delle autocelebrazioni – ha commentato il figlio maggiore di King, Martin Luther King III -. Il lavoro non è finito. Il viaggio non è completato. Possiamo e dobbiamo fare di più».
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