La beffa delle false “Teste di Modì” torna in auge in una canzone di Caparezza

Le false Teste di ModìTrent’anni fa la città di Livorno si apprestava a rendere omaggio ad uno dei suoi figli più illustri, organizzando una mostra celebrativa per il centenario della nascita di Amedeo Modigliani. Oltre ad allestire lo spazio espositivo del Museo Progressivo di Arte Moderna con alcuni lavori dell’artista, per l’occasione la direttrice del museo decise di provare a dare un fondo di verità alla leggenda che da anni circolava tra i livornesi secondo la quale, nel 1909, Modigliani – di rientro da Parigi per un’esposizione temporanea – su consiglio di alcuni amici artisti avrebbe gettato tre sculture nel canale nei pressi di piazza Cavour. Grazie ad un ingente finanziamento il Comune avviò le operazioni di dragaggio dei Fossi Medicei e il 24 luglio, una settimana dopo l’inizio dei lavori, avvennero i primi due sorprendenti ritrovamenti ai quali ne seguì un terzo, datato 10 agosto 1984. Dalle acque del canale emersero infatti tre blocchi di pietra arenaria sui quali erano incisi tre volti, con uno stile che ad un primo sguardo rimandava a quello, inconfondibile, delle opere più famose di Modigliani.

La notizia creò immenso stupore e venne accolta con esaltazione da giornalisti e critici d’arte che si recarono in città per documentare da vicino l’evento e valutare l’autenticità delle “Teste di Modì”. Livorno divenne improvvisamente “capitale dell’arte” e non tardarono ad arrivare giudizi critici di ogni tipo. In molti non esitarono un solo istante nell’attribuire la paternità delle Gli autori di una delle testeopere a Modigliani mentre altri rimasero più cauti, ma si trattava di una minoranza che rimase tale. Dall’euforia per il ritrovamento, ben presto si passò alla delusione mista a rabbia quando iniziò a diffondersi un’altra notizia clamorosa; l’autore dei blocchi di pietra non era affatto Modigliani, bensì tre ragazzi livornesi che rilasciarono un’intervista ad un quotidiano rivendicando la paternità di una delle tre “opere”. I tre studenti, all’epoca dei fatti poco più che ventenni, dichiararono di aver realizzato la scultura con un semplice trapano e di averla gettata nel canale proprio nei giorni in cui iniziarono le ricerche. «Continuavano a non trovare niente – disse uno di loro facendo riferimento alle operazioni di dragaggio -, così abbiamo deciso di fargli trovare qualcosa».

Quella che sembrava a tutti gli effetti una scoperta sensazionale si rivelò in realtà una beffa eclatante. Pietro Luridiana, Michele Ghelarducci e Pierfrancesco Ferrucci (questi i nomi degli autori della beffa) si presero gioco delle istituzioni e di numerosi critici d’arte e vennero addirittura invitati dalla Rai a riprodurre – in prima serata e in diretta tv – la scultura per dimostrare le loro reali qualità. Il falso venne nuovamente riprodotto dai tre ragazzi davanti alle telecamere e qualche giorno più tardi uscì allo scoperto anche l’autore delle altre due teste: trattasi di Angelo Froglia, un portuale livornese appassionato di arte che spiegò di aver agito per rivalsa nei confronti dei giudizi della critica. «Il mio intento – rivelò Froglia – era quello di evidenziare come attraverso un processo di persuasione collettiva, attraverso la Rai, i giornali, le chiacchiere tra persone, si potevano condizionare le convinzioni della gente».

A distanza di trent’anni la beffa delle teste di Modigliani non è stata per nulla dimenticata, ma anzi torna in auge grazie ad un artista a tutto tondo come Caparezza (al secolo Michele Salvemini) che nel suo ultimo album Museica, ispirato proprio al mondo dell’arte, dedica alla vicenda una canzone intitolata proprio “Teste di Modì”.

Il 24 luglio ricade la ricorrenza del ritrovamento della seconda testa realizzata dai tre ragazzi livornesi (oggi cinquantenni) che compaiono nel video ufficiale della canzone di Caparezza, il quale ha voluto così omaggiare quel gesto: «Quello scherzo sublime inceppò, seppur involontariamente, i meccanismi del mondo dell’arte. Per tanti fu subito stizza, per me fu subito amore». Nel testo della canzone Caparezza utilizza il suo solito linguaggio tagliente per scagliarsi contro la critica e, più in generale, l’opinione pubblica, che allora come oggi viene condizionata e influenzata dai mass media al punto di far passare per vero qualcosa che in realtà non lo è.

Gabriele Rossetti

Vhils sceglie Torino per lasciare la sua impronta a colpi di scalpello

vhils torinoGigantografie di volti campeggiano sui muri di alcune città. Visi di persone più o meno note ritratti sulle facciate degli edifici che ad un primo sguardo potrebbero sembrare dipinte. Niente affatto, perché in realtà sono dei veri e propri bassorilievi realizzati a colpi di scalpello. Questo è il marchio di fabbrica del giovane artista portoghese Vhils, al secolo Alexandre Farto, che da qualche anno è riuscito a ritagliarsi un posto di rilievo nel sempre più affollato mondo della street art. Classe 1987, Vhils ha studiato alla University of the Arts di Londra città dalla quale ha cominciato a farsi conoscere. Il talento ha fatto il resto e dalla capitale britannica – dove nel 2008 ha scolpito un volto accanto a un’opera di Banksy – ha spiccato il volo lasciando la sua impronta in giro per il mondo: Lisbona (sua città natale), Parigi, Las Vegas, Rio De Janeiro e, da qualche giorno, Torino. Lo street artist portoghese è infatti sbarcato nel capoluogo sabaudo nell’ambito del progetto NizzArt (organizzato dall’associazione URBE) per il quale ha realizzato una gigantografia sulla facciata laterale di un condominio in Via Nizza, al civico 50.

L’opera d’arte ha richiesto due giorni di lavoro e rappresenta «Una delle tante persone qualunque incontrate e fotografate durante un viaggio in Messico». Dopo aver utilizzato una base di vernice bianca per delineare i lineamenti del viso, Vhils ha preso in mano lo scalpello tratteggiando accuratamente le ombre e le rughe del volto raffigurato. Un lavoro complesso, dispendioso e dal valore inestimabile.

“Scratching the surface”, così è denominata la tecnica utilizzata da Vhils che nel corso della sua (giovane) carriera ha saputo creare un proprio tratto distintivo che gli ha permesso di essere accostato ai più grandi street artist del mondo.

Gabriele Rossetti

Da Parigi a Torino, il viaggio nel mondo di Renoir in mostra alla GAM

renoir - la balançoireVisioni paesaggistiche, figure borghesi e popolane, ritratti di amici e bambini, decorazioni floreali, nudi femminili. Parte dell’attività artistica di uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo lascia momentaneamente Parigi e approda a Torino per dare vita ad un allestimento del tutto inedito. Il viaggio nel mondo di Pierre-Auguste Renoir fa tappa alla GAM (Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea) nell’ambito di “Torino incontra la Francia”, progetto culturale promosso dal capoluogo piemontese in collaborazione con il Musée d’Orsay. E proprio dalle collezioni del museo parigino (e dal Musée de l’Orangerie) giungono in prestito sessanta capolavori del pittore, in mostra fino al 23 febbraio. Quattro mesi per ammirare da vicino il lavoro – e la sua complessa evoluzione – dell’artista, attivo tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento.

Suddivisa in nove sezioni l’esposizione mette in evidenza l’indiscussa qualità della tecnica pittorica di Renoir e i diversi temi affrontati durante la sua vita e tramutati in arte. Definito e riconosciuto da molti esclusivamente come «pittore della spensieratezza e della gioia di vivere», Renoir fu invece un artista capace di sperimentare, confrontarsi con le novità del periodo storico e stravolgere le classiche regole della rappresentazione.

La mostra (che ha riscosso il successo del pubblico ancor prima di aprire i battenti con oltre 12 mila prenotazioni) si apre con la sezione intitolata L’età della Bohème, nella quale vengono presentati ritratti di amici e uno dei primi nudi e prosegue con Des femmes passent dans la rue, galleria di ritratti femminili tra cui spiccano “Madame Darras”, “La liseuse” e “Giovane donna con veletta”. Il pezzo forte della terza sezione, La recherche heureuse du côté moderne, è senza dubbio il meraviglioso “La balançoir”, mentre nel quarto spazio espositivo, Le métier de paysagiste, si possono ammirare dieci opere realizzate in en plein air. La visita continua le sezioni Infanzia, Le Jeunes filles au piano, Beau comme un tableau de fleurs, Le nu, forme indispensable de l’art, e si conclude con L’eredità delle Bagnanti, dove campeggia l’omonimo dipinto considerato il testamento pittorico di Renoir, donato nel 1923 dai figli allo Stato francese.

I quadri esposti alla GAM sono stati selezionati dall’ampia produzione artistica del pittore francese nella quale il cappello è un elemento ricorrente. Protagonista della moda francese della Belle Epoque, il corpicapo (soprattutto quello femminile) era una delle passioni di Renoir e rappresenta il filo conduttore del percorso espositivo.

Gabriele Rossetti

Canaletto torna a Venezia, mostra temporanea unica ma a prezzi folli

canaletto Per allestire una mostra di rilievo non è detto che vi sia bisogno di esporre un numero spropositato di opere. Ci sono alcuni (rari) casi in cui basta un solo capolavoro per creare un evento unico. È quanto succederà tra circa un mese con una delle più importanti opere di Giovanni Antonio Canal, meglio conosciuto come Canaletto, che dopo duecentosettanta anni torna nel luogo in cui ebbe origine per dare vita ad una esperienza irripetibile. Venezia è pronta ad accogliere L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute, considerato tra i lavori più riusciti del pittore vedutista vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo.

Per ottenere la massima aderenza e coerenza con il paesaggio da rappresentare il pittore veneziano era solito avvalersi della camera ottica, utilizzata anche per la creazione di questo meraviglioso dipinto che raffigura uno scorcio del Canal Grande con le immancabili gondole e una veduta della Basilica della Salute ed è stato realizzato come ex voto della città per la salute ritrovata dopo l’ennesima pestilenza. La prospettiva è quella che si ha da una finestra del loggiato dell’Abbazia di San Gregorio, il luogo in cui venne realizzato il quadro e lo stesso nel quale verrà nuovamente esposto. Proveniente dalla Collezione Terruzzi, l’opera sarà infatti allestita dal 10 novembre al 27 dicembre (con orario continuato 24 ore su 24) negli spazi dell’Abbazia, di proprietà della famiglia Buziol.

«Più che una mostra vuol essere soprattutto un’esperienza emozionale», fanno sapere gli organizzatori che non a caso hanno programmato l’esposizione nel periodo in cui in città si festeggia la Madonna della Salute. Un video realizzato dal regista e sceneggiatore Francesco Patierno introdurrà l’opera dell’artista veneziano ai visitatori dell’esposizione che, però, non sarà alla portata di chiunque. Per accedere alle sale dell’Abbazia di San Gregorio bisognerà infatti prenotarsi ma, soprattutto, essere disposti a sborsare cifre stellari. L’unica nota stonata è proprio rappresentata dal costo dei biglietti: da un minimo di 35 euro a testa per una visita diurna di gruppo (otto persone) si passa ai 50 euro a testa per una visita notturna sempre di gruppo. Il prezzo sale e di molto per chi è intenzionato ad ammirare l’eccezionale dipinto in solitaria: in questo caso il costo è di 280 euro per la visita diurna e 400 euro per quella notturna.

Il ritorno del Canaletto a Venezia è merito della famiglia Buziol, in particolare dei giovani fratelli Silvia e Giampaolo che nel 2010 visitarono la mostra “Canaletto e i suoi rivali” presso la National Gallery di Londra. Tra le opere esposte c’era anche L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute che li colpì per quella veduta così familiare e che ha portato i Buziol a voler allestire la mostra proprio in quel luogo. Il capolavoro di Canaletto venne realizzato tra il 1740 ed il 1745 in tre copie pressoché identiche, una delle quali è di proprietà delle Collezioni Reali della Regina Elisabetta II. Non la copia in questione che invece lasciò Venezia quando venne acquistata da una famiglia nobiliare inglese che in seguito la cedette al Duca di Kent. L’ultimo passaggio di consegne avvenne nell’aprile del 1970 quando l’opera venne battuta all’asta da Sotheby’s a Londra, finendo nelle mani dell’attuale proprietà che prima di riportarla finalmente a Venezia ha consentito che venisse esposta temporaneamente al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, al Vittoriano di Roma, a Palazzo Reale a Milano e al Museo Maillol di Parigi.

Gabriele Rossetti

“Better out than in”, la street art di Banksy sui muri di New York

banksy-new-yorkSi chiama “Better out than in” (Meglio fuori che dentro) ed è l’ultimo, originalissimo, progetto dell’esponente di spicco della street art mondiale. Parliamo ovviamente di Banksy, il misterioso writer inglese che da qualche giorno è sbarcato a New York per esprimere e condividere ancora una volta tutto il proprio talento. Non una semplice toccata e fuga; la tappa dell’artista di Bristol nella Grande Mela durerà almeno tutto il mese di ottobre, durante il quale realizzerà quotidianamente i suoi lavori sui muri della città. New York si trasformerà dunque in una galleria d’arte a cielo aperto, pronta ad ospitare una “mostra a puntate” quanto mai insolita.

Qualsiasi opera realizzata al chiuso, in uno studio, non sarà mai superiore ad una realizzata all’esterno. [Paul Cézanne]

Non sarà una mostra a tutti gli effetti ma poco ci manca perché l’artista, la cui identità è tuttora ignota, ha voluto corredare ogni opera con tanto di audio guida, proprio come se fosse ospitata in un qualsiasi museo. Accanto ad ogni lavoro è infatti dipinto un numero di telefono che una volta composto rimanda alle spiegazioni e alle curiosità relative alla realizzazione dell’opera in questione. Il progetto è stato presentato dallo stesso artista sul proprio sito internet (banksy.co.uk) e viene costantemente aggiornato, garantendo a chiunque non abbia la fortuna di trovarsi a New York di poter ammirare i murales realizzati e di ascoltare online l’audio guida. È inoltre possibile seguire il percorso dell’artista sui principali social network attraverso l’hashtag #banksyny.

banksy_ny1Il primo lavoro, intitolato “The street is in play”, è stato realizzato martedì 1 ottobre ad Allen Street, Chinatown, e ritrae due ragazzini che si aiutano, uno sulla schiena dell’altro, per raggiungere una bomboletta spray posta all’interno di un cartello che riporta la scritta «I graffiti sono un crimine». Stando alle cronache recenti il murales sarebbe stato danneggiato dopo appena un giorno e ricoperto con una mano di vernice bianca e la scritta «Sweaty palms made me lose the love of my life».

banksy_nyLa seconda opera è invece comparsa su una serranda nel Westside ed altro non è che una frase: «This is my New York accent» che rimanda al carattere di scrittura che contraddistingue la maggior parte dei graffiti sparsi sui muri delle città, non soltanto di quelle americane. A completamento dell’opera un’altra frase «… normally I write like this», scritta con un font decisamente più asciutto, composto ed elegante. Insomma, un lavoro irriverente in puro stile Banksy.

banksy_ny2Il “percorso espositivo” dell’artista britannico prosegue a Midtown dove in data 3 ottobre è stato realizzato l’ultimo – solo per il momento – lavoro che raffigura un cane con la zampa posteriore alzata, intento ad espletare i propri bisogni contro un idrante. Il tocco di genio di Banksy sta principalmente nel pensiero attribuito all’idrante circa il suo (istantaneo) rapporto di “completezza” con l’animale.

Fortunatamente ottobre è appena cominciato e ci sarà quasi un mese di tempo per seguire l’ambizioso progetto di Banksy per le strade di New York ed assistere ad altri capolavori unici. Impossibile non appassionarsi.

Gabriele Rossetti

Pisa, il murale “Tuttomondo” di Keith Haring ottiene il vincolo della Soprintendenza: vivrà per sempre

tuttomondoLa voce era circolata da parecchio tempo e si attendeva solamente l’ufficialità, ma ora che è arrivata gli appassionati di arte possono finalmente tirare un sospiro di sollievo. Il murale Tuttomondo, realizzato a Pisa nel 1989 da Keith Haring, ha ottenuto il vincolo della Soprintendenza ed è stato dichiarato di “interesse storico-artistico particolarmente importante”. Attraverso il decreto 335/2013 il ministero dei Beni culturali ha così formalmente inserito l’opera, l’unica realizzata da Haring presente sul territorio italiano, tra i monumenti sottoposti a tutela. Il vincolo della Soprintendenza sta a significare che il capolavoro realizzato sulla parete esterna della chiesa di Sant’Antonio Abate vivrà per sempre e che una volta tanto – in termini di cultura – le istituzioni italiane hanno saputo dare il giusto riconoscimento a quello che va considerato a tutti gli effetti un patrimonio.

La decisione del ministero dei beni Culturali è stata presa in netto anticipo rispetto al consueto iter che prevede l’applicazione del vincolo al normale decorso dei 50 anni della realizzazione dell’opera e che solitamente viene applicato ai lavori degli artisti riconosciuti di chiara fama.

tuttomondo keith haringIl governo italiano ha così reso omaggio al grande genio artistico di Keith Haring che definì Pisa «un paradiso» e pensò l’opera proprio nella speranza che rimanesse permanente. Realizzato un anno prima della sua morte, Tuttomondo è considerato il testamento spirituale ed è l’ultima opera pubblica dell’artista newyorkese. Per la sua realizzazione sono state utilizzate tempere acriliche su una superficie di 180 metri quadrati ed il grande dipinto ritrae 30 figure, concatenate tra loro nel tipico stile inconfondibile di Haring, che vogliono simboleggiare la pace e l’armonia del mondo. Da poco restaurata per conservarla in maniera idonea e per rallentarne il processo di invecchiamento, l’opera è una delle rarissime (tra quelle contemporanee) ad essere vincolate dalla Soprintendenza per i beni artistici.

Gabriele Rossetti

Roy Lichtenstein colora Parigi: restrospettiva al Centre Pompidou

Roy Lichtenstein - Ohhh… Alright…, 1964, © Estate of Roy Lichtenstein L’estate di Parigi si preannuncia più che mai colorata grazie alle opere sensazionali di Roy Lichtenstein, uno dei massimi esponenti della Pop Art, in esposizione fino al 4 novembre prossimo presso le sale del Centre Pompidou. Dopo Chicago, Washington e Londra, la grande retrospettiva sull’artista statunitense, principalmente noto per le sue tavole che riprendono lo stile dei fumetti, sbarca dunque nella capitale francese per fornire ai visitatori una panoramica completa sul lavoro che ha consacrato Lichtenstein nell’olimpo dell’arte mondiale. Dalle opere più note a quelle rimaste all’oscuro del grande pubblico, la mostra ripercorre la carriera dell’artista newyorkese esponendo circa un centinaio di capolavori: i fumetti dei primi anni ’60, certo, ma anche sculture, ceramiche, quadri e stampe.

«Cercare una nuova prospettiva su questa figura emblematica della Pop Art americana, andando “oltre il Pop” per rivalutare Lichtenstein come uno dei primi pittori postmoderni». A detta degli organizzatori l’esposizione parigina è principalmente basata su questo auspicio, vale a dire cercare di far emergere a tutti gli effetti la vena creativa ed eclettica di Lichtenstein che, nel corso della carriera, si è confrontato anche con i generi più tradizionali della pittura (ad esempio, nudi, paesaggi e nature morte).

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L’esposizione del Centre Pompidou attraversa in maniera cronologica le diverse fasi della vita dell’artista. Organizzata in collaborazione con l’Art Institute di Chicago e la Tate di Londra la mostra è curata da Camille Morineau che di Lichtenstein ha detto: «Ciò che rende la forza della sua arte, è anche la distanza divertita e critica che, senza diventare cinico, ha tenuto tra se stesso e l’arte, dagli inizi fino alla fine della sua vita…». Nato a New York nel 1923, Roy Lichtenstein non amava particolarmente la celebrità e le luci della ribalta. Preferiva di gran lunga esprimersi attraverso la sua arte – sempre al passo con i tempi – che ha generato icone mai banali, ricche di significato e humor. Oltre che coloratissime.

Gabriele Rossetti

Parigi, ripulito il muro della casa di Gainsbourg che verrà aperta al pubblico

muro gainsbourgC’è un angolo di Parigi che non sarà più lo stesso. Un angolo in cui una mano di vernice ha cancellato un pezzo di storia della capitale francese, legata ad uno dei suoi simboli: il poeta e cantautore Serge Gainsbourg. L’angolo in questione si trova al numero 5 di rue de Verneuil, VII arrondissement nel quartiere di Saint-Germain-des-Près, ed altri non è che l’indirizzo della casa nella quale Gainsbourg abitò dalla fine degli anni Sessanta fino alla sua scomparsa, avvenuta il 2 marzo 1991. Da quel giorno l’appartamento, 130 metri quadrati, distribuiti su due piani, non è stato più aperto ed è presto divenuto meta di pellegrinaggio dei fans di Gainsbourg che – alla stregua degli ammiratori di Jim Morrison nel cimitero Père Lachaise – hanno cominciato a ricoprire il muro esterno con scritte, disegni, dediche e ricordi personali.

Un colpo d’occhio unico che rendeva omaggio alla creatività dell’artista francese ma che, col passare degli anni, era diventata una “bacheca” a cielo aperto sulla quale chiunque lasciava un segno, talvolta anche inappropriato. La casa di rue de Verneuil è stata anche il luogo in cui si sono consumati gli amori più grandi di Serge Gainsbourg, tra cui la relazione con Brigitte Bardot dalla quale nacque una delle canzoni più famose composte dall’artista, Je t’aime moi non plus, divenuta un successo internazionale ma pubblicata dopo la rottura con l’attrice. La canzone vede la partecipazione della cantante Jane Birkin che diventerà la sua compagna e darà alla luce la figlia Charlotte.

A distanza di ventidue anni proprio la figlia del compianto Gainsbourg ha deciso che fosse giunta l’ora di ripulire dalle scritte la facciata dell’abitazione. Una decisione che ha spaccato l’opinione pubblica parigina, come sempre divisa in casi di questo genere, subito rassicurata da un cartello comparso fuori dall’abitazione: “Ami Serge? Allora rispetta anche questo luogo fino alla fine dei lavori. Ci sarà sempre tempo dopo per la scrittura”. Imbiancare il muro esterno è stato il primo passo verso la ristrutturazione che prevede l’apertura della casa al pubblico che a settembre diverrà un museo, soddisfacendo così la volontà di Charlotte di trasformarla in un luogo di interesse culturale, seppur molto raccolto.

Gabriele Rossetti

Milano rende omaggio a Guido Crepax a dieci anni dalla scomparsa

valentina-crepaxNel decennale della scomparsa e ad 80 anni dalla nascita di un grande artista quale Guido Crepax, Milano dedica una mostra mai realizzata prima proprio in onore del celebre fumettista. Si comincia giovedì 20 giugno e sarà possibile ammirarne il contenuto fino al 15 settembre 2013 nel meraviglioso scenario delle dieci sale dell’Appartamento di Riserva a Palazzo Reale che, insieme al Comune e all’Archivio Crepax, hanno organizzato, promosso e prodotto l’esposizione. Circa 90 tavole originali ma anche filmati e installazioni video sono state rispolverate dagli archivi e, per l’occasione, messe a disposizione dei visitatori.

Nato nel capoluogo meneghino nel 1933, Guido Crepax ha conosciuto la celebrità in tutto il mondo grazie al personaggio di Valentina, pubblicato per la prima volta nel 1965 sulle pagine della rivista Linus, ma dalla sua matita sono nate altre creature di eguale importanza. Crepax è stato infatti anche un designer pubblicitario, autore di oggetti di grande consumo, illustratore di libri, giornali, copertine di dischi e scenografo di teatro. La personale a lui dedicata vuole ripercorrere non soltanto la brillante carriera bensì il contesto storico durante il quale si è sviluppata, in una Milano che a quei tempi trasudava cultura.

Ognuna delle dieci sale che ospitano la mostra è caratterizzata da un tema, accuratamente scelto per mettere in evidenza i vari interessi e legami dell’artista. Quello con la sua famiglia, con la città di Milano, con Valentina, con il design, la moda, la letteratura, il cinema, la fotografia, la musica e con le illustrazioni di grandi romanzi storici (per esempio di Kafka e Edgar Allan Poe). Stroncato dalla sclerosi multipla nel 2003, l’ultimo lavoro di Crepax risale a un anno prima quando fece un adattamento di Frankestein, tratto dal romanzo di Mary Shelley.

Gabriele Rossetti

“Slave Labour”, il murales di Banksy venduto all’asta a Londra

slave labour banskyUn bambino scalzo, inginocchiato e intento a cucire a macchina una serie di Union Jack, la bandiera della Gran Bretagna. È questa una tra le opere più famose di Banksy. Il murales realizzato da uno dei maggiori esponenti della street art è stato venduto all’asta a Londra per 750mila sterline (circa 1 milione di euro).

L’opera è stata messa sul mercato da una società di servizi per vip, la Sincura Group, dopo che già negli scorsi mesi un’altra asta era stata sospesa a Miami in seguito alle forti proteste dei residenti del quartiere in cui il murales era stato realizzato. Fece infatti la sua comparsa sulla parete di un discount a Wood Green, Londra nord, nel maggio del 2012, poco prima delle celebrazioni del Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II, salvo poi venire rimossa dal muro nel febbraio scorso per essere messa all’asta negli Stati Uniti.

Il graffito intitolato “Slave Labour” rappresenta una critica verso lo sfruttamento del lavoro minorile e vuole simboleggiare tutti i bambini schiavi del mondo. Come ogni altro lavoro dell’artista originario di Bristol è divenuto celebre in poco tempo al punto da richiamare numerosi turisti, indirizzati verso l’opera grazie anche all’installazione di cartelli stradali posizionati all’uscita della metropolitana. Proprio la possibile perdita del murales e dei suoi visitatori ha alimentato le polemiche di residenti e politici locali che adesso si augurano che il compratore – del quale non è stata rivelata l’identità – voglia restituire al quartiere il dono di Banksy. Difficile che ciò avvenga anche perché pare che l’acquirente sia un collezionista americano.

Attribuito a Banksy, in realtà “Slave Labour” non è mai stato autenticato ma gli esperti sono certi che sia stato realizzato dall’artista, che nel 2008 ha introdotto un servizio di autenticazione delle sue opere (denominato Pest control) al fine di regolamentare il mercato dei suoi lavori.

Gabriele Rossetti

(Foto: © Peter Macdiarmid, Getty Images)

Velvet Underground e Andy Warhol Foundation: accordo tra le parti

the velvet underground nicoAlla fine si è scelto di non scegliere. Si è concluso con un nulla di fatto il processo che vedeva contrapposti gli ex membri dei Velvet Underground e la Andy Warhol Foundation. Non è stata emessa alcuna sentenza dal momento che le parti hanno raggiunto un accordo di massima. Oggetto della causa, la famosissima banana disegnata dall’artista e regalata al gruppo che nel 1967 la utilizzò per la copertina dell’album di esordio: The Velvet Underground & Nico. Una delle copertine più famose della storia del rock, resa celebre proprio grazie all’inconfondibile tratto del re della Pop Art.

La causa nei confronti della Fondazione intitolata ad Andy Warhol ha inizio nel gennaio 2012 ed è intentata da Lou Reed e John Cale, storici membri della band i quali contestano all’ente – che si occupa di gestire e proteggere i lavori dell’artista – la commercializzazione dell’opera, riprodotta per la realizzazione di cover per iPhone e iPad. Nonostante il disegno di Warhol non sia protetto da copyright i due fondatori dei Velvet Underground chiedono la sospensione della diffusione e depositano una richiesta di ingiunzione presso la Corte Federale di Manhattan. Secondo Reed e Cale la banana è sinonimo di Velvet Underground e pertanto non può essere (ri)utilizzata nemmeno dalla fondazione che porta il nome dell’artista, scomparso nel 1987.

Il contenzioso tra le due parti si protrae a lungo in tribunale. La Fondazione esclude con fermezza l’accusa di violazione del copyright ritenendola inoltre infondata perché – oltretutto – la band non è più in attività da quarant’anni. Anche il giudice sembra in un primo momento accogliere questa linea difensiva fino al colpo di scena che coincide con la chiusura del caso risalente a pochi giorni fa, che vede le due parti mettersi d’accordo mediante un documento definito “confidenziale” (e chissà quanto denaro in ballo…), risparmiando così alla Corte Federale di New York la fatica di pronunciarsi per l’una o per l’altra.

Gabriele Rossetti

Blowin’ In The Wind, la canzone simbolo di Bob Dylan compie 50 anni

Bob Dylan«How many roads must a man walk down before you call him a man?» Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo? Si apre con questa frase Blowin’ In The Wind, canzone simbolo della carriera di Bob Dylan divenuta un manifesto per la generazione dei giovani cresciuti negli Anni ’50 e ’60 che lottavano per la difesa dei diritti civili. Una canzone scritta di getto – lo stesso cantautore di Duluth ha più volte dichiarato di averla buttata giù in dieci minuti – che oggi spegne 50 candeline. Era il 27 maggio 1963 e l’allora 22enne artista dava alle stampe The Freewheelin’ Bob Dylan, secondo album ufficiale che si apriva proprio con queste note.

Costruita su tre semplici strofe, Blowin’ In The Wind divenne presto un inno e una pietra miliare della cultura musicale di tutti i tempi. Nonostante le tematiche sociali, pacifiste ed esistenziali affrontate nel brano, il menestrello del Minnesota si affrettò a ribadire che «non è una canzone di protesta». Eppure è particolarmente legata proprio ad una protesta di massa, quando venne eseguita dal vivo durante una manifestazione di piazza a Washington davanti a Martin Luther King e ad una marea di persone.

La canzone è stata suonata miliardi di volte in tutto il mondo e reinterpretata dai migliori artisti tra cui Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Sam Cooke, Neil Young, Marlene Dietrich, Duke Ellington. Un’infinità di cover nei generi più disparati che però non hanno mai snaturato il significato delle parole, semplici e dirette allo stesso tempo, ma in fondo delicate come un soffio di vento.

Gabriele Rossetti

“Ritorno a Venezia”: Palazzo Ducale ospita una mostra di Manet

OlympiaDal 24 aprile e fino al 18 agosto 2013 la Fondazione Musei Civici di Venezia rende omaggio al pittore francese Édouard Manet esponendo parte dei suoi capolavori nelle sale di Palazzo Ducale. Tra dipinti, disegni e incisioni, la mostra è composta da circa ottanta opere che hanno reso celebre uno tra i maggiori esponenti del periodo pre-impressionista, ed è stata realizzata grazie alla collaborazione del Musée D’Orsay di Parigi che attualmente conserva la maggior parte delle opere dell’artista – alcune delle quali prestate in via del tutto eccezionale per l’occasione. Come si legge sul sito ufficiale dell’esposizione la mostra, intitolata “Manet. Ritorno a Venezia”, «nasce dalla necessità di un approfondimento critico sui modelli culturali che ispirarono il giovane Manet negli anni del suo precoce avvio alla pittura».

Uno stile inconfondibile che fonda le sue radici traendo ispirazione dalla pittura spagnola ma che al tempo stesso presenta influenze anche da quella italiana (più specificatamente veneziana) del Rinascimento. Inevitabili i riferimenti a Le déjeuner sur l’herbe e a Olympia, due tra le opere più famose dell’artista, che rimandano rispettivamente ai capolavori di Tiziano Colazione campestre e Venere di Urbino. E proprio per dimostrare questa tesi ai visitatori della mostra verranno riproposti grandi tableau realizzati da artisti veneziani quali Tiziano, Tintoretto, Carpaccio, Lotto e Antonello da Messina, per coglierne analogie e sfumature comuni.

Precursore dell’impressionismo con il quale non volle mai essere identificato, dopo molti viaggi in Germania, Olanda, Spagna e Italia, Manet tornò a Parigi dove si dedicò alla pittura en plein air senza tralasciare gli elementi stilistici accumulati nei vari Paesi. In particolare nel nostro, che oggi gli dedica una mostra unica e significativa, mai analizzata prima da un punto di vista tanto critico che vuole mettere in risalto tutta la sua vena artistica.

Gabriele Rossetti