I pannolini diventano hi-tech: un codice QR avvisa quando cambiarli

pannolini_techL’innovazione tecnologica non conosce limiti e trova sviluppo nei terreni più impensabili. Quello dei pannolini per neonati, ad esempio, che in un futuro non troppo lontano diverranno hi-tech. Dagli Stati Uniti arriva infatti un’invenzione che potrebbe dare una mano a genitori, nonni e baby sitter i quali, grazie all’utilizzo di uno smartphone, avranno la possibilità di sapere quando è il momento di cambiare le mutandine al bebè, tenendo addirittura sotto controllo la sua salute.

Per quanto bizzarra possa sembrare l’idea nasce dalla Pixie Scientific, azienda americana che ha realizzato un prodotto al cui interno è integrato un sensore in grado di fornire informazioni sullo stato del pannolino. Gli Smart Diapers – così sono stati chiamati – si presentano come i più comuni pannolini, eccezion fatta per la presenza di un codice QR che cambia colore a contatto con l’urina. Ai genitori basterà passare il codice sotto lo smartphone per avere accesso ad una applicazione e controllare così eventuali rischi di infezione urinaria, di disidratazione o anche problemi renali del bambino.

Il prodotto di ultima generazione è già stato brevettato dalla Pixie Scientific che ha comunque in programma la realizzazione, in collaborazione con l’Università della California, di ulteriori test approfonditi al fine di ottenere risultati sempre più attendibili. Il passo successivo dell’azienda sarà chiedere l’autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) per la commercializzazione di quelli che si apprestano ad essere i pannolini del futuro.

Gabriele Rossetti

Martin Scorsese, mostra biografica al Museo del Cinema di Torino

scorseseRegista, attore, sceneggiatore, produttore cinematografico. Questo e molto altro rappresentano al meglio la figura di Martin Scorsese, uno dei maestri della settima arte, autore di grandi capolavori capaci di mettere d’accordo critica e pubblico. La biografia del cineasta americano, di origini italiane, è protagonista della mostra a lui dedicata che dopo essere stata esposta a Berlino approda nelle sale del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Dal 13 giugno e fino al 15 settembre 2013 la Mole Antonelliana ospita veri e propri feticci appartenenti al mondo di Scorsese che gravitano – e non potrebbe essere altrimenti – attorno alla sua principale passione, divenuta lavoro. La passione incondizionata per il cinema che nel 1990 lo ha portato a fondare la Film Foundation, organizzazione non-profit impegnata nel restauro e nella conservazione di pellicole storiche che nel corso degli anni hanno subito danneggiamenti.

Co-prodotta dalla Deutsche Kinemathek e dal Museo Nazionale del Cinema, la mostra ricostruisce la vita di Scorsese attraverso un ricco materiale inedito proveniente direttamente dagli archivi privati dell’artista. Fotografie, lettere private, bozzetti, manifesti, storyboard, frammenti di sceneggiature e oggetti di scena (tra cui i costumi di Gangs of New York, quelli da pugile utilizzati da Robert De Niro in Toro scatenato e il vestito rosso di Michelle Pfeiffer in L’età dell’innocenza), costituiscono la mostra il cui percorso parte dall’Aula del Tempio e si protrae lungo la scalinata che ruota attorno alla cupola della Mole Antonelliana.

Curatrici dell’allestimento torinese Nicoletta Pacini e Tamara Sillo il cui obiettivo è «mettere in evidenza il lavoro di Martin Scorsese, le figure, le location, l’estetica dei suoi film, la passione e la sua umanità di narratore». La mostra comincia già all’esterno dove sulla cancellata del museo campeggiano 14 gigantografie scattate da Brigitte Lacombe sui set di alcuni film, mentre all’interno è suddivisa in aree tematiche che raccontano il legame di Scorsese con la famiglia, la musica ma anche con l’America ed in particolare con New York, a cui è dedicata un’intera sezione. Ad accogliere il visitatore è proprio una mappa luminosa della Grande Mela sulla quale sono collocati tutti i set scelti dal regista per i suoi film.

Non potevano infine mancare i contenuti multimediali grazie ai quali in ogni sezione è possibile vedere e ascoltare, tramite una guida su iPad, la descrizione ed il commento in lingua originale dello stesso Scorsese di 20 opere presenti nella mostra.

Gabriele Rossetti

Costi elevati e scarso rendimento, il sindaco di Chicago chiude 54 scuole

Rahm EmanuelA nulla è servito l’appello del piccolo Asean Jonhson, lo studente divenuto simbolo della protesta contro la decisione del sindaco di Chicago di chiudere 54 scuole pubbliche tra cui anche la sua. Nemmeno le parole del bambino hanno scalfito minimamente la fermezza di Rahm Emanuel, primo cittadino della metropoli americana, che non ha guardato in faccia nessuno perseguendo la propria strada. Controcorrente, verrebbe da dire, perché la decisione ha scatenato polemiche a non finire coinvolgendo diverse categorie: in primo luogo gli studenti ma di riflesso anche insegnanti e genitori.

Classe 1959 ed ex capo di gabinetto di Barack Obama alla Casa Bianca, Rahm Emanuel ha ponderato la propria scelta per via di scarsi risultati educativi e a fronte di costi ritenuti elevati dall’amministrazione comunale che ha di fatto definito «fallite» le scuole destinate alla chiusura. Il deficit annuale del sistema scolastico è infatti pari a 1 miliardo di dollari, utilizzati per il mantenimento di edifici per lo più mezzi vuoti. La decisione del primo cittadino ha innescato la rabbia del sindacato degli insegnanti che attraverso il presidente Karen Lewis ha parlato di «un momento luttuoso per tutti i bambini della nostra città». Le scuole con meno alunni e scarsi rendimenti verranno dunque chiuse e gli studenti trasferiti in altri istituti in grado di offrire una migliore istruzione.

Una posizione tanto netta e irremovibile potrebbe inoltre costare cara al sindaco in vista delle elezioni in programma nel 2015.  La sua rielezione potrebbe essere tutt’altro che scontata ma Rahm Emanuel preferisce soffermarsi solo sul presente, difendendo a spada tratta la propria decisione. «Subirò qualsiasi conseguenza politica se ciò serve a dare un futuro migliore ai nostri figli – ha fatto sapere il sindaco -: chiudere queste scuole fatiscenti era politicamente rischioso ma necessario per l’educazione dei ragazzi».

Una scelta opinabile ma sicuramente coraggiosa, quella di Rahm Emanuel, che in pochi avrebbero saputo prendere. E chissà se anche in Italia qualche suo collega sarà in grado di seguirne le orme, garantendo un notevole risparmio alle casse dei Comuni e – perché no – destinando quei soldi per investire nell’istruzione.

Gabriele Rossetti

Blowin’ In The Wind, la canzone simbolo di Bob Dylan compie 50 anni

Bob Dylan«How many roads must a man walk down before you call him a man?» Quante strade deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo? Si apre con questa frase Blowin’ In The Wind, canzone simbolo della carriera di Bob Dylan divenuta un manifesto per la generazione dei giovani cresciuti negli Anni ’50 e ’60 che lottavano per la difesa dei diritti civili. Una canzone scritta di getto – lo stesso cantautore di Duluth ha più volte dichiarato di averla buttata giù in dieci minuti – che oggi spegne 50 candeline. Era il 27 maggio 1963 e l’allora 22enne artista dava alle stampe The Freewheelin’ Bob Dylan, secondo album ufficiale che si apriva proprio con queste note.

Costruita su tre semplici strofe, Blowin’ In The Wind divenne presto un inno e una pietra miliare della cultura musicale di tutti i tempi. Nonostante le tematiche sociali, pacifiste ed esistenziali affrontate nel brano, il menestrello del Minnesota si affrettò a ribadire che «non è una canzone di protesta». Eppure è particolarmente legata proprio ad una protesta di massa, quando venne eseguita dal vivo durante una manifestazione di piazza a Washington davanti a Martin Luther King e ad una marea di persone.

La canzone è stata suonata miliardi di volte in tutto il mondo e reinterpretata dai migliori artisti tra cui Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Sam Cooke, Neil Young, Marlene Dietrich, Duke Ellington. Un’infinità di cover nei generi più disparati che però non hanno mai snaturato il significato delle parole, semplici e dirette allo stesso tempo, ma in fondo delicate come un soffio di vento.

Gabriele Rossetti

Jason Collins, il primo coming out nella storia dello sport americano

jason collins - sports illustrated«Sono un centro della NBA di 34 anni. Sono nero. E sono gay». Comincia così, senza troppi giri di parole, la lunga lettera scritta da Jason Collins e pubblicata sulle pagine di Sports Illustrated, uno dei settimanali più prestigiosi degli Stati Uniti. Una lettera intensa, una sorte di confessione al mondo intero che fa del giocatore di basket californiano il primo atleta ancora in attività nella storia dello sport americano ad aver dichiarato la propria omosessualità. «Non intendevo essere il primo atleta dichiaratamente gay di un torneo americano professionistico a squadre. Dal momento che lo sono, sono felice di parlarne».

Ha aspettato tanto Jason Collins ma a 34 anni e dopo 713 partite nella principale lega professionistica ha deciso che fosse giunta l’ora di abbattere un tabù e superare una barriera per molti insormontabile, specialmente nel mondo dello sport e della notorietà. Il centro dei Washington Wizard ha smesso di nascondersi e attraverso il settimanale racconta il bisogno di voler essere «vero, autentico e sincero», senza sentirsi diverso da nessun altro. Nel 2011 durante il lockout dei giocatori della NBA ha iniziato a confrontarsi con se stesso. La lunga sospensione del campionato lo ha portato a riflettere e a volersi liberare ma è solo dopo il recente attentato alla maratona di Boston, città nella quale ha giocato per otto mesi, fino allo scorso  febbraio, con i Boston Celtics, che dentro di lui è scattato qualcosa. «Le cose possono cambiare in un istante – scrive Jason nella lettera -, quindi perché non vivere veramente?».

«Ci vuole moltissima energia per custodire un così grande segreto. Ho sopportato anni di miseria e ho passato lunghi periodi a vivere in una bugia. Ero certo che il mio mondo sarebbe caduto a pezzi se qualcuno l’avesse saputo». Il timore di venire emarginato si è invece trasformato in solidarietà, non soltanto dall’ambiente che gravita intorno alla NBA ma dall’America intera che gli ha mostrato sostegno e vicinanza. A cominciare da Barack Obama e dalla moglie Michelle, orgogliosi di lui come lo è il suo collega e avversario Kobe Bryant che ha aggiunto: «Non nascondete chi siete per colpa dell’ignoranza degli altri».

Professionista esemplare, Jason Collins si prepara ad affrontare la tredicesima stagione in NBA e in qualunque squadra approderà non sarà difficile vedergli indossare ancora una volta la canottiera numero 98, in ricordo dell’anno in cui uno studente gay dell’Università del Wyoming venne rapito, torturato e frustato. Nella confessione autentica pubblicata da Sports Illustrated Jason – che ha disputato anche due finali NBA indossando la casacca dei New Jersey Nets – ripercorre le tappe della sua vita a cominciare dall’infanzia trascorsa con la famiglia nella periferia di Los Angeles e racconta il rapporto con il suo gemello Jarron, il secondo ad essere informato della sua omosessualità dopo la zia Teri che dentro di lei già sapeva. Dopo i famigliari e gli amici più stretti ora tutto il mondo è venuto a conoscenza del segreto che Jason portava dentro di sé e al quale seguiranno inevitabilmente conseguenze. «Mi è stato chiesto come reagiranno gli altri giocatori al mio coming out. La risposta è semplice: non ne ho idea. Sono un pragmatico. Spero il meglio, ma sono pronto anche al peggio». «Il basket professionistico è una famiglia – conclude Jason -. E praticamente ogni famiglia che conosco ha un fratello, una sorella o un cugino che è gay. Nella famiglia della NBA, io sono solo l’unico che ha fatto coming out».

Gabriele Rossetti

L’hamburger di McDonald’s che rimane intatto dopo 14 anni

hamburger mcdonald'sUn panino è per sempre? Evidentemente sì, se acquistato da McDonald’s. Ammesso che sia vera la notizia arriva – e non potrebbe essere altrimenti – direttamente dagli Stati Uniti e lascia a dir poco schifati. A diffonderla un sessantatreenne dello Utah che ha voluto mostrare gli effetti del tempo su un hamburger acquistato nel 1999 in un ristorante della catena multinazionale di fast food. Nessuno si sognerebbe mai di comprare un panino e tenerlo in casa per osservarne i cambiamenti. Proprio quello che invece ha fatto David Whipple. L’esperimento del signore americano è stato raccontato nel talk show televisivo della Cbs “The Doctors” e vuole confermare quello che gran parte della popolazione mondiale pensa ma che forse nessuno prima d’ora era riuscito a dimostrare: ovvero che quello in vendita da McDonald’s non è cibo sano.

Tanto è stato detto e scritto sul junk food e sui suoi effetti, ma la prova fornita da Whipple non può che lasciare tutti esterrefatti. Chiunque abbia anche solo una volta mangiato un panino di McDonald’s non può certo rimanere indifferente. Quattordici anni dopo (!) l’hamburger conservato con cura dal signore dello Utah non presenta segni di muffa né emana cattivo odore. Merito di enzimi e conservanti che danno al panino una “freschezza” che nessun altro alimento avrebbe neanche dopo poche settimane.

L’intento iniziale di David Whipple era di dimostrare ai suoi amici (probabilmente amanti del fast food) le reali qualità del cibo servito da McDonald’s. L’osservazione dei cambiamenti del panino portò i primi effetti dopo due settimane, quando i sottaceti e la cipolla iniziarono pian piano a ridursi. Da quanto si apprende, Whipple dimenticò l’hamburger nella tasca di un giubbotto per poi ritrovarlo due anni più tardi senza che riuscisse a notare altri cambiamenti. Il panino era rimasto intatto senza segni di deterioramento causati dal tempo.

Il signore americano decise così di trasformare il panino in una possibile fonte di guadagno mettendolo in vendita su eBay e trovando – addirittura – degli acquirenti disposti a sborsare fino a 2000 dollari pur di accaparrarsi quello che è già stato definito il panino più vecchio del mondo. Neanche una cifra così alta ha però fatto vacillare l’uomo la cui voglia di mostrare il “relitto” ai nipotini, per fargli capire cosa voglia dire mangiare in un fast food, è risultata più forte.

In fin dei conti, però, non dobbiamo stupirci più di tanto. D’altronde i vertici della multinazionale sono stati chiari fin da subito; non avevano forse ragione nel dire che “succede solo da McDonald’s”?

Gabriele Rossetti

La Cedrata Tassoni alla scoperta dell’America: lanciata sul mercato

cedrata tassoniChissà se anche gli americani troveranno un minuto per lei. Sì, perché da qualche settimana la Cedrata Tassoni è andata alla scoperta degli Stati Uniti dove proverà ad affrontare – per la prima volta fuori dai confini nazionali – il mercato estero. La celebre bevanda a base di cedro è stata presentata negli States alla fiera New England Food Show 2013 tenutasi nel mese di marzo a Boston e al momento viene distribuita solamente in Massachusetts e nello Stato di New York, dove è disponibile presso lo store di Eataly a Manhattan.

L’obiettivo è ovviamente aumentare la distribuzione ed estenderla ad altri Stati, di pari passo con l’eventuale gradimento del pubblico e le vendite. Una sfida coraggiosa per l’azienda di Salò (Brescia) mossa dalla volontà di confrontarsi con una cultura differente e un nuovo target al quale proporsi e proporre un prodotto della tradizione italiana. La Cedral Tassoni nasce come spezieria e viene riconosciuta come farmacia nel 1793 prima di divenire l’attuale azienda alimentare che tutti, in Italia, conosciamo. Inserendosi nel mercato americano dei soft drinks la cedrata cercherà di conquistare consensi provando a superare la concorrenza di numerose bevande analcoliche che negli Stati Uniti hanno un notevole successo in termini di vendite.

La Cedral Tassoni cercherà di esportare in America non soltanto il fiore all’occhiello della sua produzione, bensì anche quel “made in Italy” di cui da tempo sembra che (purtroppo) si stiano perdendo le tracce. Attraverso la vendita delle sue bibite l’azienda bresciana vuole raccontare una storia tutta italiana che metta in risalto la qualità del lavoro e l’anima dei prodotti, realizzati con elementi naturali.

E allora chissà se tutto questo basterà a conquistare il nuovo pubblico e se anche gli americani troveranno un minuto per lei…

Gabriele Rossetti