28 agosto 1963. Anche cinquant’anni fa era di mercoledì e quel giorno 250mila persone si radunarono al Lincoln Memorial di Washington per partecipare alla marcia per il lavoro e la libertà (For Jobs and Freedom). Una grande manifestazione politica a sostegno dei diritti civili ed economici per gli afroamericani, organizzata da Philip A. Randolph, sindacalista militante, e dal pacifista Bayard Rusting, omosessuale dichiarato con un passato da comunista. Sul palco intervennero sindacalisti, leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti e attivisti. Tra questi anche il pastore protestante Martin Luther King, capo del Southern Christian Leadership Conference, che prese la parola per pronunciare uno dei discorsi divenuti simbolo della storia americana e, più in generale, di tutta l’umanità. Un discorso memorabile preparato in ogni minimo dettaglio per ricordare a tutta la nazione che, cento anni dopo l’Editto di emancipazione degli schiavi firmato dal presidente Abraham Lincoln, i neri d’America erano ancora considerati cittadini di serie b.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
Davanti ad una folla incantata Martin Luther King continua a leggere ma poi decide di andare a braccio per esprimere i concetti chiave. Chissà quante volte ha preparato quel discorso, o forse non ha semplicemente bisogno di riguardare quelle parole scritte di getto a tutela della sua comunità, la comunità afroamericana. Fino al passaggio cruciale e a quell’«I have a dream», pronunciato una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, come un mantra di speranza.
Ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza.
Quel sogno che cambiò il corso della storia è ancora vivo? Forse sì e la testimonianza arriva dalle migliaia di persone che in questi giorni si sono riunite a Washington, proprio al National Mall, per commemorare quella data e quelle parole, tanto forti quanto purtroppo ancora attuali, anche a cinquant’anni di distanza. «Non è il momento delle commemorazioni nostalgiche. E non è il momento delle autocelebrazioni – ha commentato il figlio maggiore di King, Martin Luther King III -. Il lavoro non è finito. Il viaggio non è completato. Possiamo e dobbiamo fare di più».
Gabriele Rossetti
Dopo Cinquant’anni di strada ne è stata compiuta e la presenza di Obama credo rappresenti un punto importante della rivoluzione. Ma il sogno non è ancora del tutto compiuto, se ancora oggi assistiamo ad episodi di razzismo fortemente radicato. Il sogno aveva nella sua speranza tutta la bellezza che ancora si avverte in quelle parole registrate. Ma c’è ancora strada da percorrere putroppo.
Non possiamo averne la certezza ma quasi sicuramente senza quel discorso Obama non sarebbe presidente degli Stati Uniti. Qualcosa è cambiato ma come dici giustamente tu la strada è ancora lunga, e in tal senso le parole del figlio di Martin Luther King sono emblematiche: “Il lavoro non è finito. Il viaggio non è completato. Possiamo e dobbiamo fare di più”. Tutti.
Cinquant’anni e forse siamo solo a metà del cammino per l’uguaglianza dei popoli, preconcetti, arroganza e sfruttamento dell’uomo ” bianco” la fanno ancora da padrone, la strada è ancora lunga purtroppo, felice pomeriggio.
Angela
E’ proprio così Angela, la strada è davvero lunga. Un saluto.
Provocano sempre i brividi questi discorsi, brividi non di terrore, tutt’altro. Sono brividi di gioia, parole che arrivano sotto pelle e lì si radicano. Martin Luther King, insieme ad altri profeti del tempo, hanno lasciato un segno importante, hanno fatto il primo passo per spianare la strada alle future generazioni, ma il cammino della società non sarà mai concluso perché potremo sempre migliorare e cercare di cambiare. Un carissimo saluto!
Andrea
Pensando alla situazione attuale (anche solo nel nostro Paese) è davvero un peccato che il significato di quelle parole non sia stato colto nella sua pienezza. E’ però vero che non si potrà mai considerare il cammino della società realmente concluso. Un saluto a te, Andrea!
L’ha ribloggato su ilnotiziabile.
E’ vero c’è ancora strada da fare sul tema dell’uguaglianza sociale ma qualcosa è stato fatto. E forse quel qualcosa è partito proprio da qui.
Assolutamente! E lo ha ribadito anche Obama nel celebrare l’anniversario. “Grazie a quella marcia – ha detto – l’America è oggi più libera e più giusta”.